La partecipazione degli ebrei alla Resistenza italiana

Con “Resistenza” si intende il movimento politico-militare che si sviluppò in Italia a partire dall’8 settembre 1943, allorquando, a seguito dell’annuncio pubblico della stipula dell’armistizio tra il governo Badoglio del Regno d’Italia e gli Alleati, si verificarono l’immediata occupazione militare delle forze tedesche già presenti o immediatamente affluite nella penisola e la progressiva ma rapida costituzione di una struttura amministrativa e di un potere politico da parte di uomini e forze del fascismo ribelli al re e fedeli al patto con il nazismo.

E’ importante tenere presente che la Resistenza fu composta anche da azioni del tutto spontanee e immediate (a iniziare dal rifiuto di reparti militari di obbedire agli ordini tedeschi di disarmo). In termini generali, si può sintetizzare che la Resistenza consistette nell’organizzazione e nell’azione sul piano politico e sul terreno paramilitare o militare, contro i fascisti e i nazisti. Essa fu un fenomeno diversificato tendente al raggiungimento di un’unità interna.

Il concetto di “resistente” contiene un riferimento diretto al luogo dell’oppressione, pertanto non è corretto applicare quel termine agli italiani che costituirono il Corpo Italiano di Liberazione, la formazione che combatté sul fronte bellico contro le truppe tedesche e italo-fasciste. Gli uni e gli altri fanno invece parte del più generale “movimento di liberazione nazionale”.

Resistenza quindi fu organizzazione e azione finalizzate a combattere sul campo militare e in ambito politico-sociale l’occupante tedesco-nazista e il potere fascista ribelle della neocostituita Repubblica sociale italiana (Rsi). I combattenti furono denominati partigiani.

Mentre strati crescenti (ma agli inizi relativamente limitati) della popolazione si orientavano contro l’occupazione straniera, la continuazione della guerra, le conseguenze economiche e sociali di ciò, progressivamente anche contro i valori del fascismo, i preesistenti movimenti politici antifascisti sviluppavano progetti di riforma o di vere e proprie rivoluzioni politiche e sociali.

Le differenti progettualità si coordinarono e organizzarono in un Comitato di Liberazione Nazionale (Cln), al quale facevano riferimento Comitati di Liberazione Nazionale costituiti a livello di zone geografiche, località, luoghi di lavoro, generalmente composti da rappresentanti dei partiti comunista, socialista, d’azione, democristiano e liberale. Nel settentrione la lotta fu ben presto guidata direttamente dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai).

I partigiani aderivano prevalentemente alle Brigate Garibaldi e a quelle Giustizia e Libertà, afferenti ampliamente le prime al partito comunista e le seconde al partito d’azione. Vi erano poi formazioni socialiste, cattoliche, monarchiche e di altro tipo ancora.

Nell’estate 1944 la Resistenza giunse a liberare per alcune settimane estese zone alpine o appenniniche; nell’aprile 1945 liberò i maggiori centri urbani del settentrione. Tutto ciò in un rapporto di dipendenza logistica e di concorrenza politica con gli Alleati.

Nei primi decenni dopo la fine della guerra, nel Paese è stata commemorata e messa in evidenza quasi esclusivamente la Resistenza politico-militare. Più recentemente è stato evidenziato che vi furono anche altre forme di opposizione attiva al nazifascismo, condotte senza armi e sovente senza essere sostenute da veri e propri movimenti politici. Queste forme sono state definite “resistenza civile” o “resistenza disarmata”.

La Resistenza restituì dignità e libertà all’Italia, ossia a noi tutti.

Ad essa presero parte anche ebrei.

Riguardo a questa partecipazione, occorre innanzitutto ricordare che essa fu il simbolo e il suggello del ricongiungimento degli ebrei d’Italia con la propria patria. Come il fascismo, espellendoli dall’esercito e dalla società tutta, aveva troncato nel 1938 la storia nazionale unitaria sviluppatasi col processo risorgimentale, così la Resistenza, accogliendo sin dai suoi inizi dirigenti politici e combattenti ebrei, riassegnò loro la qualifica di “italiani” e dette nuova vita al concetto e alla storia di patria.

Questo impegno di centinaia e centinaia di ebrei italiani (e di alcune decine di ebrei stranieri in Italia) viene definito “partecipazione” sia per richiamare la loro condizione di eguaglianza con i partigiani non ebrei, sia per indicare la differenza della loro situazione da quella di molti loro correligionari in altre regioni del continente. In Europa centrale e orientale, le durissime politiche antiebraiche della ghettizzazione, degli eccidi di massa nelle boscaglie e della deportazione nei centri di messa a morte industriale, sviluppate dal nazismo nei primi anni del conflitto, avevano incrementato la differenziazione e la separazione vera e propria tra ebrei e non ebrei, e – per i primi – avevano inciso sia sulle possibilità tecniche, sia sulle stesse modalità della lotta resistenziale. Così nel ghetto di Varsavia “resistere” significò anche mantenere una vita ebraica collettiva, oltre che rivoltarsi con le armi al momento della liquidazione del ghetto, mentre ad Auschwitz-Birkenau resistere significò non solo la ribellione armata del Sonderkommando del 7 ottobre 1944, ma anche la realizzazione, da parte di ebrei e non ebrei, del progetto, anch’esso rischioso, di scattare e far uscire dal campo immagini fotografiche dello sterminio in atto.

Uno studioso ha suddiviso la Resistenza ebraica nell’Europa orientale in tre grandi ambiti di tipo strutturale-geografico: la Resistenza nei ghetti, la Resistenza nelle foreste, la Resistenza nei campi di concentramento e di sterminio1. Nei ghetti – ovviamente – e quasi sempre nelle foreste (nonché nel Sonderkommando di Birkenau) questo impegno si concretò nella costituzione di veri e propri gruppi ebraici di lotta.

In Italia invece, similmente a quanto accadde in gran parte dell’Europa meridionale e occidentale, gli ebrei affluirono individualmente, quali singoli, nelle varie formazioni partigiane e nei movimenti politici che le sostenevano e indirizzavano.

La decisione fu talora molto semplice e immediata; il ventottenne Emanuele Artom, il giorno dopo l’8 settembre 1943, scrisse sul proprio diario: “La radio tedesca annunzia che verranno a vendicare Mussolini. Così bisogna arruolarsi nelle forze dei partiti e io mi sono già iscritto”.2 Come si vede, la seconda frase condensa una grande quantità di informazioni: “così” rimanda sia all’urgenza del momento, sia all’automaticità della decisione; “arruolarsi” esprime la consapevolezza che si tratta di un’iscrizione già militare, e non semplicemente politica; “dei partiti” documenta sia il carattere unitario della Resistenza sin dagli inizi, sia la loro pronta ripresa di attività dopo il 25 luglio 1943; “già iscritto” testimonia una prontezza e quasi un desiderio di organizzazione che compare anche in altri scritti di ebrei. Il venticinquenne Carlo Rosselli, subito dopo l’assassinio del socialista Giacomo Matteotti nel luglio 1924, scrisse a Piero Gobetti: “è venuta l’ora per tutti di assumere il proprio posto di battaglia in seno ai partiti”3. Non voglio sostenere che il riconoscimento della necessità dell’organizzazione politica – e, poi, politico-militare – fosse un’esclusiva ebraica; ma, certo, tra alcuni ebrei appare particolarmente presente.

Intorno all’8 settembre, nelle regioni centrali e settentrionali della penisola vi erano circa 43.000 persone appartenenti – secondo la classificazione biologica del fascismo – alla “razza ebraica”; di esse circa 33.000 possono essere definite effettivamente ebree, ossia professanti o almeno mantenenti un’identità ebraica. Alcuni erano immigrati o profughi, giunti nella penisola da poche settimane o vari anni, spesso ormai impoveriti. Molti altri avevano una cittadinanza italiana che talora derivava dai tempi di Roma antica, anch’essi portavano sulle spalle gli effetti di cinque anni di dura persecuzione legislativa, che li aveva colpiti nella condizione socio-economica e nella rete di rapporti con i non ebrei. Erano l’uno per mille della popolazione complessiva, dalla quale peraltro – a eccezione degli ebrei molto osservanti provenienti dal nord del continente – non si differenziavano grandemente, né nel vestire, né nel comportarsi4.

Possiamo sintetizzare che per molti anni gli ebrei italiani erano stati fascisti come gli altri italiani e più antifascisti degli altri italiani; cioè che essi – in termini schematici – in parte avevano sostenuto strenuamente Benito Mussolini e il suo regime e in un’altra parte, che rispetto agli italiani non ebrei risultava proporzionalmente più numerosa, lo avevano avversato5. Le leggi antiebraiche razziste del 1938 e ancora di più i processi da esse messi in moto avevano fatto maturare un profondo disincanto in molti dei primi (non in tutti) e avevano parallelamente accresciuto il rispetto e la credibilità intraebraica degli antifascisti.

Per tutti essi, lo sterminio divenne una prospettiva reale solo dopo l’8 settembre 1943, quando ormai di esso circolavano le prime parziali notizie. Così, mentre nelle terre sovietiche percorse dalle Einsatzgruppen la morte di massa giunse prima che si potesse prevederla o anche ipotizzarla, in Italia il partigiano Emanuele Artom (poi arrestato e ucciso) così commentò sul proprio diario l’ordine della Rsi di fine novembre 1943 di arresto generalizzato degli ebrei: “Che cosa ne sarà della mia famiglia? Forse non vedrò più né mio padre né mia madre. In questo caso chiederò al comandante di essere mandato in una missione tale da essere ucciso”6.


Gli ebrei resistenti attivi furono circa un migliaio: in grandissima maggioranza combattenti partigiani, ma anche esponenti clandestini politici o militari, membri di missioni clandestine alleate nella penisola7.

Alcuni di loro (come il piemontese Raffaele Jona) si impegnarono anche nel salvataggio e nell’assistenza degli altri ebrei. Resistenti attivi, pur se disarmati, furono inoltre coloro che si dedicarono unicamente a quest’ultima azione. Tra essi vi erano vari attivisti della Delegazione per l’assistenza agli emigranti – Delasem (diretta a Genova da Lelio Vittorio Valobra e poi da Massimo Teglio e animata a Roma da Settimio Sorani), nonché alcuni rabbini (come Nathan Cassuto e Riccardo Pacifici, poi arrestati e morti in deportazione). La rete della Delasem, sostenuta dall’indispensabile apporto di vari non ebrei, compresi alti esponenti cattolici, riuscì a garantire un certo afflusso di fondi dalla Svizzera e una loro distribuzione in varie località per l’acquisto di documenti falsi, generi alimentari, medicine, vestiario di lana, legna per il fuoco ecc. Tale opera permise la sopravvivenza e la permanenza in clandestinità di alcune migliaia di braccati, in particolare ebrei stranieri ed ebrei italiani poveri o totalmente soli.

Vi furono inoltre ebrei italiani che combatterono volontari su altri fronti europei. Infine, molti ebrei non italiani combatterono in Italia (spesso anch’essi quali volontari) sotto la divisa statunitense, inglese, ecc., compresi naturalmente i membri della Brigata Ebraica costituita in Palestina. Peraltro, il totale di un migliaio di resistenti in Italia comprende alcune decine di ebrei stranieri o apolidi8.

Gli ebrei partecipanti alla lotta armata, operarono quasi sempre nelle formazioni partigiane; pochissimi furono quelli impegnati nelle azioni cittadine: la clandestinità imposta dalla Shoah era incompatibile con le necessità delle azioni clandestine urbane.

Alcuni ebrei ebbero importanti incarichi negli organismi dirigenti locali e nazionali della Resistenza: l’azionista Leo Valiani e il comunista Emilio Sereni furono nominati il 29 marzo 1945 membro effettivo e membro supplente per i rispettivi partiti nel Comitato esecutivo insurrezionale, incaricato dal Clnai di sovrintendere all’ormai imminente insurrezione9. Nei convulsi giorni di fine aprile 1945 spettò a questi ultimi due, assieme al socialista Sandro Pertini, il compito di confermare la precedente decisione del Clnai di condannare a morte Benito Mussolini. Il comunista Umberto Terracini fu segretario della Giunta provvisoria di governo costituita nel settembre-ottobre 1944 nell’Ossola liberata. Eugenio Artom fu rappresentante del partito liberale nel Comitato toscano di liberazione nazionale. Vari altri svolsero la funzione di ‘commissari politici’ nelle singole formazioni partigiane. Queste presenze erano in qualche modo conseguenza automatica del maggior livello di istruzione del gruppo ebraico italiano10. Allo stesso tempo ci segnalano la permanenza del ruolo ebraico di “educatore della nazione”, testimoniato per tutto il periodo storico dell’Italia unita, e ci indicano che nella complessa vicenda del passaggio dal fascismo all’antifascismo l’Italia fece di nuovo ricorso proprio anche al gruppo degli ex-perseguitati.

La maggior parte dei resistenti ebrei aderì al partito d’azione e a quello comunista, fece quindi parte delle formazioni “Giustizia e Libertà” o “Garibaldi”11.

I caduti furono quasi cento, in maggioranza uccisi in combattimento o poco dopo l’arresto (come le triestine Silvia Elfer e Rita Rosani), ma anche nei campi dove erano stati deportati per motivi politici o perché riconosciuti come ebrei dopo l’arresto (come la torinese Vanda Maestro, arrestata assieme a Primo Levi)12.

Tra i resistenti ebrei vi fu, rispetto all’insieme del movimento partigiano, una maggiore presenza delle classi di età meno giovani e un minore numero di donne combattenti13; il primo dato segnala ancora una volta la radicalità del contributo ebraico, il secondo testimonia che sulle donne gravava maggiormente la sopravvivenza delle famiglie braccate e che proprio la loro condizione di clandestine impediva di impegnarsi nell’attività di “staffetta”.

Poco o nulla sappiamo intorno alla loro religiosità e ai mille problemi che i più osservanti di essi dovettero affrontare sulle montagne (anche se occorre dire che la maggioranza degli ebrei italiani seguiva relativamente poco le norme alimentari e le altre regole di vita dettate dall’ebraismo)14.

Mille resistenti ebrei non furono pochi. I certificati di “partigiano combattente” rilasciati dopo la guerra sono, in tutta la penisola, oltre 233.00015. Se ipotizziamo che solo due terzi dei partigiani ebrei li abbiano ricevuti, il loro numero costituisce pur sempre il 2,8 per mille del totale dei partigiani italiani, ovvero tre volte la proporzione della popolazione ebraica nella penisola. Va poi tenuto presente che altri uomini abili alla lotta dovettero impegnarsi – al fianco di tante donne – nel proteggere dagli arresti o dalla morte per stenti i loro figli, i loro anziani, i loro malati. Mille furono insomma molti, tanti. Va aggiunto che i resistenti ebrei decorati di medaglia d’oro al valor militare furono sette (Eugenio Calò, Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Sergio Forti, Mario Jacchia, Rita Rosani e Ildebrando Vivanti, tutti “alla memoria”)16 su poco più di seicento. Si tratta di una percentuale notevole, che, seppure non può e non deve dare adito a confronti di tipo meccanico (il valore mostrato da uomini e donne di tutte le fedi è sempre superiore a quanto contabilizzato dai medaglieri), tuttavia concorre anch’essa a rendere legittima l’affermazione che gli ebrei italiani parteciparono in misura assai elevata (rispetto alle loro dimensioni numeriche e alla loro condizione specifica) alla liberazione di se stessi e dell'Italia tutta.

Si potrebbe osservare che ciò costituiva un fatto semplicemente ovvio, che gli ebrei non potevano far altro che difendersi combattendo. Questa considerazione è ovviamente vera, ma non esaustiva. Essa non spiega ad esempio perché vari ebrei rientrarono in Italia dai loro luoghi di rifugio o di emigrazione (come il sionista-socialista-pacifista Enzo Sereni, che, arruolatosi in Palestina, si fece paracadutare nell'Italia occupata, per essere però poi arrestato, deportato come politico e ucciso a Dachau). C'era quindi dell'altro e per illustrarlo consentitemi di proporvi le testimonianze dei compagni di lotta del partigiano Gianfranco Sarfatti, comunista, rientrato in Italia dopo aver accompagnato i genitori al sicuro, caduto in combattimento in Valle d’Aosta. A chi gli chiedeva: “Combatti i tedeschi e i fascisti perché sei ebreo?”, lui rispondeva “No, combatto i tedeschi e i fascisti perché spero di arrivare a dare al popolo italiano onore, benessere e dignità”. E ancora: “Ma tu prima di venire qua dov'eri?”, “Ero in Svizzera”, “E come mai sei venuto di qua? Avevi la vita più facile di là, no?”, “Si, ma vedi, ci sono degli ideali”17.

Note:


  1. Nechama Tec, Resistenza in Europa orientale, in Walter Laqueur (a cura di), Dizionario dell’Olocausto, ed. it. a cura di Alberto Cavaglion, Einaudi, Torino 2004, pp. 600-9. ↩︎

  2. Emanuele Artom, Diari di un partigiano ebreo. Gennaio 1940-febbraio 1944, a cura di Guri Schwarz, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 55. ↩︎

  3. Giuseppe Fiori, Casa Rosselli. Vita di Carlo e Nello, Amelia, Marion e Maria, Einaudi, Torino 1999, p. 42. ↩︎

  4. Sugli ebrei in Italia negli anni della persecuzione cfr. Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, 2° ed., Einaudi, Torino 2007. ↩︎

  5. Ibid. ↩︎

  6. Emanuele Artom, Diari cit., p. 75 (1° dicembre 1943). ↩︎

  7. Sul numero degli ebrei resistenti vedi Michele Sarfatti, Ebrei nella Resistenza ligure, in La Resistenza in Liguria e gli Alleati. Atti del convegno di studi, Consiglio regionale della Liguria, Istituto storico della Resistenza in Liguria, Genova 1988, p. 76, nota 2. Sulla partecipazione degli ebrei alla Resistenza in Italia vedi anche Gina Formiggini, Stella d’Italia Stella di David. Gli ebrei dal Risorgimento alla Resistenza, Mursia, Milano 1970; Liliana Picciotto Fargion, Sul contributo di ebrei alla Resistenza italiana, in «RMI», vol. XLVI, n. 3-4 (marzo-aprile 1980), pp. 132-46; Santo Peli, Resistenza e Shoah: elementi per un’analisi, in Saul Meghnagi (a cura di), Memoria della shoah. Dopo i “testimoni”, Donzelli, Roma 2007, pp. 35-46. ↩︎

  8. Klaus Voigt, Profughi e immigrati ebrei nella Resistenza italiana, in “La Rassegna Mensile di Israel”, vol. LXXIV, n. 1-2 (gennaio-agosto 2008), pp. 229-253. ↩︎

  9. Pietro Secchia, Aldo dice: 26 x 1: Cronistoria del 25 aprile, Feltrinelli, Milano 1963, pp. 43-44. ↩︎

  10. Cfr. Michele Sarfatti, Gli ebrei cit. p. 45. ↩︎

  11. In Piemonte i partigiani ebrei scelsero per un terzo le prime e per un terzo le seconde, le quali invece raccolsero la metà di tutti i combattenti della regione. Cfr. Viviana Ravaioli, Gli ebrei italiani nella Resistenza. Prima indagine quantitativa sui partigiani del Piemonte, in Liliana Picciotto (a cura di), Saggi sull’ebraismo italiano del Novecento in onore di Luisella Mortara Ottolenghi, fascicolo speciale de “La rassegna mensile di Israel”, vol. LXIX, n. 2 (maggio-agosto 2003), p. 574. ↩︎

  12. Un primo elenco di 94 caduti è in Michele Sarfatti, Gli ebrei nella Resistenza, in “Bollettino della comunità ebraica di Milano”, a. L, n. 4 (aprile 1995), p. 26. ↩︎

  13. Michele Sarfatti, Gli ebrei cit. pp. 307-8. ↩︎

  14. Michele Sarfatti, Ebrei nella Resistenza cit., p. 87. ↩︎

  15. Lucio Ceva, Considerazioni su aspetti militari della Resistenza (1943-1945), in “Il presente e la storia”, n. 46 (dicembre 1994), p. 55. ↩︎

  16. Liliana [Picciotto] Fargion, Partecipazione ebraica alla Resistenza [Note biografiche dei decorati con medaglia d’oro], in Centro di documentazione ebraica contemporanea, Ebrei in Italia: deportazione, Resistenza, Tipografia Giuntina, Firenze 1974, pp. 47-51; Giuseppe Maras, Medaglie d’oro della guerra di liberazione, in Enzo Collotti, Renato Sandri, Frediano Sessi, Dizionario della Resistenza, vol. II, Einaudi, Torino 2001, pp. 735-64. ↩︎

  17. Testimonianze riportate in Michele Sarfatti, Gaddo e gli altri ‘svizzeri’. Storie della Resistenza in Valle d’Aosta, Istituto Storico della Resistenza in Valle d’Aosta, Aosta 1981, pp. 94-95. ↩︎

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