A proposito dell’operato verso gli ebrei da parte della polizia dell’Italia fascista

Recentemente sono stato invitato a scrivere un saggio per un volume sulle persone della polizia italiana del periodo fascista, e specialmente del sub-periodo repubblichino, che agirono in soccorso degli ebrei perseguitati dalla polizia italiana del periodo fascista.

Tali persone vi furono, indubbiamente. Uno fu, ad esempio, Vincenzo Attanasio, della questura di Firenze. I diari di due ebrei, nascosti in città con la figlia, attestano che egli andava a trovarli varie volte al mese (sic), anche portando notizie sugli arresti (per una persona in clandestinità è molto importante sapere se un altro clandestino, a lui noto e improvvisamente irraggiungibile, è stato arrestato o ha repentinamente cambiato nascondiglio e abitudini), o (in prossimità della Liberazione) la lista dei dirigenti più fascisti della questura (da inoltrare al CLN toscano, col quale i due erano in contatto). (cfr. Camilla Benaim, Diario 43-44, in Camilla Benaim, Elisa Rosselli, Valentina Supino, Donne in guerra scrivono. Generazioni a confronto tra persecuzioni razziali e Resistenza (1943-1944), a cura di Marta Baiardi, Firenze, Aska 2018, pp. 61-118; Giulio Supino, Diario della guerra che non ho combattuto. Un italiano ebreo tra persecuzione e Resistenza, a cura di Michele Sarfatti, Firenze, Aska 2014).

Tuttavia, non essendo accaduto che tutti gli arresti di ebrei in Italia siano stati effettuati dall’occupante tedesco, né che essi si siano arrestati e internati da soli, risposi all’invito che auspicavo innanzitutto un impegno di indagine e ricostruzione storiografica delle persone della polizia italiana del periodo fascista, e specialmente del sub-periodo repubblichino, che applicarono la persecuzione antiebraica stabilita dal Ministero dell’interno, del quale essa era appunto il braccio operativo.

Riflettendo su ciò, ho dato uno sguardo a ciò che in questi ultimi tempi è stato scritto a proposito di alcuni di questi questori, funzionari e agenti, nonché di qualche prefetto. Ne è scaturita la piccola parziale rassegna che propongo qui di seguito. E’ una rassegna non sistematica, che si limita ad agglomerare alcuni casi specifici, aventi caratteristiche sempre differenti.


Un caso è quello di uno studio sul ruolo avuto dal commissario capo Raffaele Alianello nella fase di preparazione dell’assassinio di ebrei e non ebrei alle Fosse Ardeatine, Roma marzo 1944 (Ornella Di Tondo, Intorno agli elenchi delle vittime della strage delle Fosse Ardeatine: la ‘lista Caruso’ di Regina Coeli e il ruolo del Commissario di P.S. Raffaele Alianello, in Alessia A. Glielmi, Mariaelisa Rossi (a cura di), Archivio biografico virtuale delle vittime delle Fosse Ardeatine (ViBiA): analisi e risultati. Atti della giornata di studio Roma, 23 marzo 2018, Vecchiarelli, Manziana 2018, pp. 95-147). Il testo contiene due rapide menzioni del fatto che per molti anni Alianello aveva svolto l’incarico di collegamento tra la direzione della polizia italiana e i rappresentanti di altre polizie (Di Tondo, Intorno, pp. 96, 105).

Come noto, prima dell’8 settembre 1943 il rappresentante della polizia tedesca era l’attaché di polizia presso l’ambasciata a Roma Herbert Kappler. I rapporti Alianello-Kappler sono documentati in un insieme di fascicoli conservati nell’Archivio centrale dello Stato e concernono tra l’altro le richieste di estradizione presentate dai due Paesi e le rispettive risposte, negative o positive, fino all’estate 1943 (Klaus Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, trad. Loredana Melissari, vol. 2, La Nuova Italia, Firenze 1996). Quei documenti coevi attestano che Alianello e Kappler quindi si conobbero e gestirono pratiche di una certa responsabilità per conto dei rispettivi governi dittatoriali (e criminali). Anche se questa loro precedente interlocuzione sul destino dei rispettivi cittadini non può di per sé attestare nulla relativamente alla selezione dei morituri delle Fosse Ardeatine, a mio parere essa merita di essere tenuta presente e considerata quando si analizza quest’ultima.


Un recente articolo solleva di nuovo l’attenzione su ciò che è attestato da documenti, ma non è riscontrato da testi memoriali o comunque da vissuti personali: “Ciò che si riscontra è la contraddizione tra queste rappresentazioni storiografiche e le memorie dei testimoni. Nel lavoro di ricerca spesso risulta assente l’esperienza dell’umano vivere e dell’umano agire, un’esperienza inattingibile ove manchi l’immaginazione empirica: si impara dalla vita e non soltanto dalle carte d’archivio” (Alberto Cavaglion, Fascismo e antisemitismo: l’esperienza della contraddizione, in “Mondo contemporaneo”, 2023, n. 2-3, p. 46). Uno dei fatti oggetto di queste parole è uno specifico comportamento dell’ispettore generale Guido Lospinoso, capo del Regio Ispettorato di polizia razziale di Nizza (occupata dall’Italia). Il 15 luglio 1943 (ossia 10 giorni prima del 25 luglio) il capo della polizia italiana Renzo Chierici (sopra il quale vi erano il sottosegretario all’Interno Guido Buffarini Guidi e il ministro dell’Interno e dittatore Benito Mussolini) ordinò per iscritto a Lospinoso: “vogliate aderire richiesta polizia tedesca per consegna ebrei tedeschi” (Michele Sarfatti, I confini di una persecuzione. Il fascismo e gli ebrei fuori d’Italia (1938-1943), Viella, Roma 2023, pp. 138-140: 139). Si tratta di un documento che anni fa io ricercai e recuperai (grazie a una feconda indicazione di Giorgio Fabre), mosso dalla constatazione che i documenti noti sembravano ‘non quadrare’ e dall’ipotesi che – come in altri casi – ciò poteva essere conseguenza dell’incompletezza delle conoscenze al momento disponibili e non di una qualche ‘pasticcioneria’ intrinseca degli eventi.

Sulla base del testo di quel telegramma e di ciò che avvenne a Roma dieci giorni dopo, ho così potuto inquadrare due (già note) lettere che furono inviate nell’agosto 1943 dal responsabile della polizia tedesca di Marsiglia al proprio superiore a Parigi, concernenti appunto Lospinoso, gli ebrei tedeschi della Francia occupata dall’Italia, e i loro elenchi: poco dopo il 15 luglio il subordinato italiano a Nizza aveva iniziato a dare applicazione all’ordine del proprio superiore romano, prendendo primi accordi col collega alleato di Marsiglia e consegnandogli delle liste di ebrei, e poco dopo il 25 luglio lui stesso aveva revocato quell’inizio di applicazione e ripreso (sic) le liste. Questo è ciò che risulta da quei tre documenti coevi.

Io tendo a ritenere (con cautela deontologica) che gli ebrei in questione non ebbero conoscenza di tutto ciò, che la prospettiva di essere consegnati non fece parte del loro vissuto, non entrò nelle loro vite, non poté essere memorizzata o dimenticata. Anche questa loro situazione di non conoscenza di quella porzione di storia fa parte della storia, ovviamente. L’ordine del 15 luglio fu emanato e fu inizialmente applicato (e poco dopo revocato o ‘disapplicato’ dal basso). E quel documento attesta che alla vigilia del 25 luglio 1943 la “questione antiebraica” del fascismo aveva compiuto un salto di gravità, e senza fratture note nella catena di trasmissione gerarchica degli ordini. Quel 25 luglio quegli ebrei furono colpiti dalla fortuna, anche se non lo seppero.


Un altro caso è quello di Paolo Magrini, uno dei tre questori di Modena nel periodo della Repubblica Sociale Italiana (RSI). Di lui si parla in un libro sulle vicissitudini degli ebrei stranieri abitanti in quella provincia (Fabio Montella,Speriamo in giorni migliori’. Gli Ebrei stranieri a Modena: vita quotidiana, persecuzione, deportazione, salvataggio, ritorno (1933-1947), Giuntina, Firenze 2023). Come è noto in quel territorio, a Fossoli, in dicembre 1943 fu allestito un campo speciale di concentramento per ebrei. Nelle poche pagine dedicate al campo, il libro informa che “da una comunicazione inviata il 1° gennaio 1944 si evince che il questore di Modena era già a conoscenza della prossima deportazione degli ebrei” (p. 366; con rimando a Liliana Picciotto, L’alba ci colse come un tradimento. Gli ebrei nel campo di Fossoli 1943-1944, Mondadori, Milano 2010, p. 43). Inoltre, frasi quali “[…] come annunciò il questore Magrini, ordinando al direttore del campo di […]” (Montella,Speriamo, p. 364) precisano che egli fu responsabile e supervisore di una struttura che fu “per quasi tutti la via della deportazione” (Montella,Speriamo, p. 363; citando Picciotto, L’alba, p. 4). Entrambe queste affermazioni sono basate, come si è accennato, su documenti coevi.

Il questore quindi era coinvolto nell’attuazione del capitolo italiano della Shoah durante la RSI, assieme al capo della provincia [ossia il prefetto, secondo le modifiche apportate dalla RSI] di Modena, e sotto il capo del governo e dittatore Benito Mussolini, il ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi e il capo della polizia Tullio Tamburini. Il 30 novembre 1943 Buffarini Guidi aveva diramato l’ordinanza di polizia n. 5, che prescriveva che gli ebrei italiani e stranieri fossero arrestati e internati dapprima in campi provinciali e poi in un campo nazionale (cfr. Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, ed. definitiva, Einaudi, Torino 2018, pp. 279 sgg.).

 Questo ruolo svolto per Fossoli però non collima bene con le perplessità e gli interrogativi insiti nella frase “...sul cui [di Magrini] atteggiamento a favore dei perseguitati politici e razziali permangono dubbi” (Montella,Speriamo, p. 19) e nelle parole “la figura di Magrini resta più ambigua”, riferite alla possibilità che i questori repubblichini di Modena avessero un atteggiamento “più decisamente favorevole a non ostacolare l’azione delle forze resistenziali e degli ebrei” (Montella, Speriamo, p. 264).


L’attività nei confronti degli ebrei di alcuni funzionari e agenti della Questura di Verona durante la RSI è il tema di un libro pubblicato in prima edizione nel gennaio 2021 e in seconda edizione nel gennaio 2023 (Olinto Domenichini, ‘Le ricerche hanno dato esito negativo’. I ‘giusti’ della Questura e le persecuzioni razziali a Verona, 1943-1945, Cierre, Verona [prima edizione] 2021; seconda edizione ampliata 2023). La narrazione intreccia notizie, estratti documentari e commenti.

A proposito dell’arresto degli ebrei Giacomo e Vittorio Bembassat, Marco Fresco, Margherita Nahon e il loro figlio Fernando, il libro contiene questo lungo brano [le sottolineature e le parentesi quadre sono mie]: “Il 4 aprile 1944, Sena [vicebrigadiere della questura di Verona] riferì che le ricerche dei Bembassat e della famiglia Fresco avevano dato «esito negativo». In un Appunto per il signor Questore di Verona, privo di data ma quasi sicuramente redatto nell’ultima decade di maggio, un tenente del controspionaggio militare segnalò di avere «fatto procedere al fermo» dei quattro adulti non rintracciati da Sena. Nella comunicazione, l’ufficiale fornì ulteriori informazioni: «Dagli accertamenti eseguiti non sono emersi elementi che confermino i sospetti interessanti il servizio di C.S. [controspionaggio] sorti sul loro conto. Prego pertanto di considerare le sopramenzionate persone (che si trovano in carcere) a disposizione di codesta Questura per gli eventuali provvedimenti di sua competenza. In pari data ho avvertito la direzione delle carceri di tale passaggio di disponibilità. (…) Il Fresco ha un figlio dodicenne ebreo che è stato lasciato pel momento a Terrosse [...].» Non si conoscono in dettaglio le iniziative adottate dal questore Cesare Tognon, che era stato personalmente messo a conoscenza degli arresti. Da quanto comunicò al Ministero dell’Interno si apprende che aveva consultato l’Ufficio affari ebraici del Bds [Ufficio del capo della Polizia di sicurezza e del Servizio di sicurezza – Befehlshaber der Sicherheitspolizei und des SD, BdS, insediato appunto a Verona]; un contatto che per gli ebrei equivaleva a una condanna a morte. Il 31 maggio infatti il questore segnalò al Ministero che «Dagli organi del ‘C.S.’ è stato proceduto al fermo dei sottonotati ebrei di nazionalità italiana (…). I predetti, che sinora erano riusciti a sfuggire alle ricerche disposte da questa Questura, saranno tradotti, a seguito di accordi presi col Comando Germanico B.d.S. n. S.D. (sic), al Campo di Concentramento di Fossoli (Modena). I coniugi Fresco hanno un figlio dodicenne che attualmente è stato affidato alla famiglia [...], residente in frazione di Terrosse del Comune di Roncà e che raggiungerà la famiglia, al momento in cui sarà tradotta a Fossoli.» Probabilmente l’intervento degli organi del controspionaggio militare aveva lasciato alla Questura veronese pochi margini di manovra, ma se i tedeschi non fossero stati coinvolti forse sarebbe stato possibile salvare almeno il ragazzo dei Fresco, Fernando, per il quale il 14 aprile era stato emesso l’ordine di solo rintraccioE’ ben vero che né l’ordinanza di Polizia n. 5 [del 30 novembre 1943], né la circolare Tamburini esentavano dall’arresto gli ebrei ‘puri’ di minore età, tuttavia la Questura sino a quel momento non aveva arrestato alcun bambino ebreo residente nella provincia di Verona; gli unici minori veronesi ad essere catturati e deportati furono infatti Fernando Fresco, Adolfo Tedeschi arrestato dai nazisti e Gianfranco Sforni che cadde in mani italiane in provincia di Varese. Aver preso accordi con i nazisti, insomma, in concreto significò sottoporsi alla loro prassi, che non prevedeva certo di risparmiare i bambini. Il 3 giugno 1944, quindi, tre agenti prelevarono dal carcere degli ‘Scalzi’ i quattro adulti e li accompagnarono a Fossoli, assieme al ragazzo che era stato riunito ai genitori. Furono tutti deportati ad Auschwitz il 26 giugno 1944; morirono in luogo e data ignoti”(Domenichini, ‘Le ricerche, 1a ed. pp. 79-80; 2a ed. pp. 91-92).

Le enfasi concernono tre aspetti. Il primo, è che proprio in un documento coevo riprodotto in appendice in entrambe le edizioni del libro (n. 8 Rapporto del vicebrigadiere Felice Sena, 4 aprile 1944) è scritto che le ricerche del ragazzino Fernando Fresco disposte a inizio aprile dalla questura di Verona erano finalizzate ad “addivenire all’arresto”; quindi la questura aveva stabilito proprio tale obiettivo, e lo aveva assegnato al vicebrigadiere. Il secondo, concerne l’imprecisata “possibil[ità di] salvare almeno il ragazzo”, che parrebbe assegnata proprio alla questura che intendeva arrestare il ragazzino e che poi lo recuperò dalla famiglia ‘affidataria’ per trasferirlo in arresto a Fossoli. Il terzo, riguarda l’assenza di dettagli, nella narrazione, su quanti minori “di razza ebraica”, considerati arrestabili secondo le regole della RSI, ‘abitassero’ tra dicembre 1943 e maggio 1944 in Verona e provincia, e se e quanti di essi fossero stati comprovatamente non ricercati (da quella questura), oppure ricercati, fermati e subito rilasciati (da quella questura), dettagli che però sono necessari per una corretta comprensione di quel “tuttavia”.


La differenza tra ricerche finalizzate al rintraccio o all’arresto è menzionata anche in un nuovo scritto su Giovanni Palatucci (Matteo Luigi Napolitano, ‘Nemico del Reich’: Giovanni Palatucci e la questura di Fiume fra il 1943 e il 1944, in Marcello Naimoli e Matteo Luigi Napolitano (a cura di), Cattolici in soccorso di ebrei. I Palatucci, Pio XII e il caso di Campagna, Edup, Roma 2024, pp. 32-128). Per chiarire la differenza tra le due finalità, e per una migliore comprensione di questa vicenda, è utile ricordare che la Direzione generale della pubblica sicurezza aveva disposto che nelle comunicazioni telegrafiche le questure utilizzassero la dizione “formula prima” per chiedere “ricerche arresto ulteriori segnalazioni” e “formula quarta” per chiedere “ricerche rintraccio vigilanza, ulteriori segnalazioni” (Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’interno, Direzione generale della pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Circolari (1929-1949), b. 20, fasc. giugno 1938, circolare n. 442/10849, 26 giugno 1938; Id., b. 21, fasc. luglio 1938, circolare 442/14763, 23 luglio 1938). Di Giovanni Palatucci va segnalato che il 28 febbraio 1944 fu nominato vicequestore di Fiume, che dall’aprile 1944 svolse le funzioni di sostituto del reggente della questura (firmandosi “per il reggente”), e che poco dopo ricevette l’incarico di reggente, sino al 13 settembre 1944, quando fu arrestato e poi deportato (Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’interno, Direzione generale della pubblica sicurezza, Divisione personale pubblica sicurezza, Personale di PS fuori servizio, versamento 1963, b. 20 bis, fasc. Palatucci Giovanni, questore reggente di Fiume a Direzione generale della pubblica sicurezza – Divisione personale della pubblica sicurezza, 28 febbraio 1944; Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’interno, Direzione generale della pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, anno 1944-1945 (RSI), b. 4, fasc. 26, varie relazioni di Giovanni Palatucci al capo della polizia della Repubblica Sociale Italiana, aprile, maggio e giugno 1944).

Infine, va ricordato che Fiume faceva parte dell’Operationszone Adriatisches Küstenland (Zona di operazioni Litorale Adriatico), soggetta al controllo superiore da parte delle autorità tedesche. Queste riservarono subito a sé stesse tutti i provvedimenti di arresto di ebrei: il 2 dicembre un appunto del capo di gabinetto della prefettura di Fiume precisò: “D’ordine dell’Eccellenza [il prefetto]. L’unito telegramma n. 5 relativo agli ebrei [l’ordinanza n. 5 del 30 novembre 1943] non si applica a Fiume, in quanto qui provvederanno le Autorità germaniche (Rassmann)” (Archivio statale di Rijeka, HR-DARI-8, Prefettura 1924-1945, b. 264, fasc. Situazione e trattamento persone razza ebraica, appunto del capo gabinetto della prefettura, 2 dicembre 1943). E lo stesso giorno il prefetto di Fiume, inoltrando l’ordinanza al questore, scrisse: “Comunico che, giusta accordi intervenuti con l’Autorità Germaniche [sic], non dovrà essere data esecuzione da parte dell’Autorità Italiana alle disposizioni di cui sopra, essendosi riservate le Autorità tedesche di provvedere direttamente al riguardo” (Archivio statale di Rijeka, HR-DARI-8, Prefettura 1924-1945, b. 264, fasc. Situazione e trattamento persone razza ebraica, prefetto di Fiume a reggente questura Fiume e per conoscenza a viceprefetto, 2 dicembre 1943, velina).

Il questore di Fiume quindi non poteva effettuare quegli arresti, né pertanto aveva la possibilità di ‘evitare di effettuare quegli arresti’. Conseguentemente, quali che fossero le richieste indirizzategli da altri questori, egli in sostanza poteva solo attuare una “formula quarta”, ossia verificare dati anagrafici e presenza dei ‘rintracciandi’. E dalla documentazione menzionata nel libro risulta che Palatucci si comportò proprio in tale modo, in varie occasioni (Napolitano, ‘Nemico, pp. 63, 68, 70). In sostanza, il questore (reggente) di Fiume non fuoriuscì dai compiti assegnatigli e pertinenti al suo incarico. Ossia non attuò quelle azioni che erano richieste dal suo governo centrale e vietate dall’occupante in loco e dal suo prefetto, e attuò quelle azioni che erano richieste dal suo governo centrale e consentite dall’occupante in loco.

Il libro aggiunge considerazioni quali: 1) “Palatucci, per dovere di ufficio, non poteva esimersi dal fornire le notizie di cui la sua questura disponeva”; 2) “Palatucci confermò d’ufficio indicazioni anagrafiche che erano già note a chi [in altre province] quegli arresti aveva già effettuato. Detto in altri termini, non c’è un nesso di causa-effetto tra le indicazioni anagrafiche fornite da Palatucci o dalla questura di Fiume e gli arresti”; 3) “[…] poco importa che il 22 giugno 1944 Palatucci aggiungesse [in una risposta] che era la ‘formula prima’ (arresto degli ebrei) quella da adottare” (Napolitano, ‘Nemico, pp. 57, 72, 85-86). Riguardo alle prime due considerazioni, va osservato che è preferibile tenere presente che le conferme di dati anagrafici già noti, effettuate dalla questura competente per residenza, costituivano anch’esse un elemento della caccia all’ebreo, nella misura in cui, appunto, confermavano i risultati provvisori dell’indagine della questura arrestataria. Riguardo alla terza considerazione, va osservato che è “poco” comprensibile la ‘disimportanza’ assegnata al fatto che Palatucci suggerisse che altrove venisse applicata la “formula” che egli non doveva applicare.


L’ultimo caso di questa incompleta e non omogenea rassegna concerne il prefetto o capo della provincia di Perugia, oggetto di un nuovo libro sul destino degli ebrei di quel territorio durante la RSI (Stefano Fabei, Il prefetto Rocchi e il salvataggio degli ebrei. Perugia – Isola Maggiore sul Trasimeno 1943-1944, Mursia, Milano 2022). Nel testo si afferma che il capo della provincia Armando Rocchi fece eseguire gli arresti di cui all’ordinanza n. 5 del 30 novembre 1943 in modo tale che “gli interessati ebbero quindi il tempo per sottrarsi alla cattura; vennero fermati soltanto quei pochi che non ritennero opportuno comunque assentarsi”, e poche pagine dopo indica questi ultimi con la formula: “quanti si erano fatti arrestare” (Fabei, Il prefetto, pp. 33, 46). Se non vado errato, nessuno sinora si era spinto ad affermare che vi furono ebrei che “si fecero arrestare”; il libro quindi apporta una (letteralmente) incredibile innovazione storiografica. Immagino che non sia sfuggita all’autore della presentazione del volume (Giuseppe Severini), all’autore della prefazione (Franco Cardini) e all’editore.

A proposito della destinazione degli ebrei arrestati, nel libro viene affermato: “Quando all’inizio di febbraio del 1944 il comando del SD chiese la consegna di ebrei da utilizzare negli scambi con gli Alleati di soldati tedeschi prigionieri, Rocchi sospettò che si trattasse di una trappola. Tuttavia, non potendo opporsi alla proposta riguardante l'efficienza dell’esercito germanico, rispose che vi avrebbe dato esecuzione appena ricevute dal suo Governo le istruzioni che, mentendo, dichiarò di avere richiesto” e viene riportato che in un memoriale postbellico il capo della provincia scrisse: “Tali provvedimenti [ossia il trasferimento a Isola Maggiore degli ebrei internati] dovetti anche prendere, per evitare che i tedeschi portassero, come volevano, gli ebrei nei campi di concentramento di Carpi (Modena)” (Fabei, Il prefetto, pp. 45, 47).

Relativamente alle affermazioni “mentendo” del primo brano e “per evitare” del secondo brano, si può qui trascrivere un telegramma inviato da Rocchi al Ministero dell’interno il 15 aprile 1944: “nr 1040 ALT locale comando polizia et servizio sic [riferimento alla polizia tedesca] rikiede trasferimento 20 ebrei gia fermati questa provincia at campo concentramento carpi possoli [sic] presso modena PUNTO riferimento telegramma capo polizia 22 gennaio nr 516 et direzione generale polizia 1412/442 qualora trattisi campo concentramento nazionale prego telegrafare se nulla osti kiesto trasferimento PUNTO prefettura modena est pregata telegrafare recettivata [sic] predetto campo et possibilita ulteriori trasferimenti PUNTO capo prov rokki” (Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, A5G IIg.m., b. 151, fasc. 230, sfasc. 2). Il telegramma reca varie date di aprile e maggio, apposte negli uffici del Ministero con timbro o a mano. La sua storia dopo l’arrivo alla direzione di polizia sembra complessa ed è ancora da ricostruire; può darsi che ad esso non sia mai stata data risposta, ma il fatto che sia stato scritto e inviato (da Perugia) è indubbio. Anche il contenuto mi pare chiaro e trasparente: il capo della provincia chiedeva conferma che Fossoli fosse il campo di raccolta nazionale degli ebrei previsto dall’ordinanza n. 5 e che vi fosse “ulteriore” capienza. Il suo testo appare cristallinamente gerarchico e occorre una fantasia davvero molto notevole per definirlo un’azione contro il “trasferimento” quei venti ebrei.

I casi sopra esposti concernono vicende e situazioni talora molto diverse. Tutti però hanno in comune un aspetto: il fatto di concernere, esplicitamente o necessariamente, documenti sull’intenzione o sull’effettuazione di arresti, o internamenti, o consegne di ebrei (o di ebrei e non ebrei, nel caso delle Fosse Ardeatine).

La storiografia della Shoah si nutre di un numero limitato di documenti, a causa delle distruzioni e dispersioni di molti di essi, e della particolare specifica limitatezza di quelli concernenti il suo nucleo: l’uccisione plurima e poi sistematica e incessante degli umani classificati “di razza ebraica”. Manca il documento cartaceo con l’ordine di Hitler di procedere a ciò, e manca anche il documento cartaceo con l’accordo di Mussolini e Hitler per procedere a ciò per l’Italia. Questa limitatezza rafforza ancor più la necessità di fare buono e pieno uso dei documenti disponibili. Ciascuno di essi ha comunque una rilevanza alta. E merita, richiede, pretende un’analisi accurata: verifica, caratteristiche tecniche, significato immediato, significato complessivo, rimandi e legami.

Tutto ciò, iniziando dai documenti coevi, da quelli che hanno un virtuale “finito di manoscrivere” e/o “di dattiloscrivere” in una data nell’immediata prossimità dell’evento cui sono connessi. Possono essere lettere personali, pagine di diario non riveduto successivamente, comunicazioni di un ufficio, ecc. Poi, ovviamente, tocca ai documenti non coevi: memoriali, autobiografie, testimonianze, relazioni di uffici, procedimenti giudiziari, ecc. Questi possono arricchire e correggere le incompletezze e le parzialità risultanti dai documenti coevi, ma possono insinuare o cementare vere e proprie deformazioni, volute e non volute. Per questo i primi passi di una ricerca consistono nell’interrogarsi (e interrogare i già esperti) sulle fonti documentarie, individuarle, e poi esaminare i singoli documenti, coglierne (cercare di) i significati, interpretarli. Tutto questo, tenendo presente la distinzione tra fonti coeve e non coeve, e interrogandole separatamente sulle rispettive finalità. Questo è il mestiere di chi indaga la storia (o meglio, quella parte della storia caratterizzata dall’esplosione delle fonti scritte cartacee).

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