Tra storia e farsa

1.

Un comunicato stampa diramato dalla Santa Sede il 19 ottobre 1999 informava che i due enti cattolico ed ebraico incaricati dalla Santa Sede e dalle istituzioni ebraiche di sviluppare il dialogo inter-religioso avevano concordato di nominare un “gruppo di lavoro di studiosi cattolici ed ebrei” avente il compito di “review” la raccolta di documenti della Santa Sede del 1939-45 da essa pubblicata in undici volumi nel 1965-81 col titolo Actes et documents du Saint Siège relatifs à la seconde guerre mondiale. I commissari sarebbero stati “tre ebrei e tre cattolici”; i rappresentanti dei due enti esprimevano la speranza che “ogni dubbio o interpretazione contrastante” fosse risolto per mezzo di tale “joint review”. Il 22 novembre i due enti resero noti i nomi dei commissari: Eva Fleischner, Gerald P. Fogarty e John F. Morley per l’ente cattolico; Michael R. Marrus, Bernard Suchecky e Robert S. Wistrich per l’ente ebraico. Come i lettori di quotidiani italiani già sanno, uno di essi il 25 ottobre aveva affermato:

Una ricerca seria si fa sugli archivi, con la garanzia del libero accesso alle fonti. Altrimenti diventa una farsa a cui personalmente non intendo partecipare.

e il 6 dicembre affermò:

Nonostante i miei dubbi, ho deciso di partecipare perché penso che si debba accettare la sfida, anche se ci si muove entro margini ristretti, e si lavora nei termini che sono essenzialmente quelli del Vaticano. Penso che tutto questo vada sottoposto a verifica, perché altrimenti cadremmo in un atteggiamento negativo. Vedo questa situazione come una apertura piccola, ma che può essere ingrandita. E spero che, nel futuro, il mondo scientifico potrà beneficiare di questo nostro lavoro, anche se probabilmente ci vorrà del tempo.

Interviste a Wistrich pubblicate dal Corriere della Sera del 26 ottobre 1999 e da Il manifesto del 7 dicembre 1999

Come sempre in caso di interviste, non dobbiamo guardare alle singole parole ma al senso complessivo del discorso). Il 7 dicembre, al termine della loro prima riunione, i sei commissari rilasciarono una dichiarazione in cui essi, “as Jewish and Catholic scholars” esprimevano la speranza che il loro impegno “will assist the pursuit of truth, historical understanding, and better relations between the Jewish and Catholic communities”. Nel Rapporto preliminare diffuso il 26 ottobre 2000, i commissari dell’ora denominata International Catholic-Jewish Historical Commission (ICJHC) ribadiscono di essere “three Catholic and three Jewish scholars appointed, respectively, by [seguono i nomi dei due enti]”, confermano di aver avuto per compito “to examine critically” gli undici volumi sopraricordati e precisano di aver accettato l’incarico per tre motivi: i volumi erano “little used and little known”; il loro riesame sarebbe stato “a first step” verso l’apertura degli archivi vaticani; “it would be useful to engage in an indipendent inquiry by three Catholic and three Jewish scholars with a view to promoting a deeper and more mature level of historical discourse between and within our two communities”.

Che dire di fronte a tanto ardire? In primo luogo va affermato che i capi delle religioni hanno pieno diritto di dirsi e dire che si occupano anche di storiografia e che gli storici hanno pieno diritto di aggettivarsi ufficialmente a loro piacere, di far parte di qualsivoglia comunità, di partecipare a qualsiasi commissione, di finalizzare a loro piacimento il proprio impegno. Fermamente stabilito tutto ciò, va ricordato che la storiografia è una scienza artistica che dovrebbe sforzarsi di essere libera, autonoma e indipendente. E che essa pertanto non può che avere reazioni di rigetto di fronte a paritetiche commissioni di nomina religiosa autodenominatesi “storiche” che si propongono di pervenire a interpretazioni uniche di documenti pubblicati (sta qui l’ardire), che accettano — e addirittura preliminarmente — di lavorare su documenti pubblicati senza avere accesso a quelli collaterali (qui si fuoriesce dalla deontologia), che esprimono giudizi collettivi finanche sulla notorietà e sulla conoscenza di non importa quale volume (qui stiamo tra l’ardire e la farsa), che pensano che questo loro lavoro costituirà un beneficio per il mondo scientifico (qui ci avviciniamo all’insulto di quest’ultimo). Dispiace che sei persone, degne in partenza del massimo rispetto, abbiano accettato di scendere così in basso. Chi le conosce ha ora il compito non facile di aiutarle a risollevare la loro dignità; gli auguro sinceramente di riuscirci. Gli altri storici possono tornare a impegnarsi negli studi e nei dibattiti dai quali sono stati momentaneamente distolti. Anche i capi religiosi, pur avendo il suddetto pieno diritto, possono tornare a impegnarsi negli studi e nei dibattiti dai quali si erano erroneamente distolti.

2.

La storia (gli storici ricercano sempre la storia di ogni cosa) del Rapporto dell’ICJHC quindi lo caratterizza non come un contributo di natura storiografica, bensì come un documento di storia, ossia: non soggetto ma oggetto del lavoro storico. Ciò detto, è pur sempre lecito e doveroso chiedersi in che rapporto le domande dei sei commissari stanno con lo stato odierno delle conoscenze su Santa Sede e persecuzioni nazi-fasci-vichyste (ecc.) antiebraiche. Una risposta seriamente completa non può evidentemente essere immediata, ché essa richiede mesi o forse anni di ricerche accurate (non da parte di una nuova Commissione, per carità!), un tempo e un impegno che peraltro sarebbe forse opportuno dedicare all’esame di documentazione originale e/o alla discussione di contributi di natura storiografica. Io quindi mi sono limitato a interrogare il Rapporto dell’ICJHC solo su due questioni specifiche da me già conosciute.

A

La prima questione concerne il punto n. 7 del Rapporto dell’ICJHC e in parte i n. 8, 32 e alcuni altri. I sei commissari si, gli (al Vaticano) e ci chiedono se nel 1941 Pio XII venne consultato riguardo alla comunicazione della Santa Sede a Vichy che “there was no objection to these restrictions [antiebraiche francesi] so long as they were administered with justice and charity and did not restrict the prerogatives of the Church”. Lasciamo perdere il fatto che a questo punto i commissari appongono un’annotazione che, invece di rimandare alla comunicazione in questione, rimanda a varie pagine degli Actes, una delle quali (vol. 8, pag. 296) rimanda (finalmente) a detta comunicazione; lasciamo anche perdere il fatto che i commissari non riferiscono che il documento in questione è in realtà non un messaggio diretto del Vaticano bensì una relazione dell’ambasciatore di Vichy presso la Santa Sede riportante in modo fedele quanto quest’ultima gli aveva comunicato. Ciò che qui interessa è che la comunicazione/relazione esplicitava che la prerogativa da non intaccare era quella concernente i matrimoni: qualora la legislazione antiebraica francese fosse giunta a vietarli o limitarli (quelli “razzialmente misti”), allora sarebbero sorti problemi col Vaticano, eventualità peraltro — riferiva sempre l’ambasciatore — già verificatasi in occasione dell’introduzione di tale divieto da parte di Italia e Romania. A ciò si può aggiungere che gli Actes documentano anche che, al momento del varo di un nuovo testo legislativo antiebraico in Slovacchia, la Santa Sede avvisò che al “carattere universale della Chiesa e della sua dottrina, si oppone innanzitutto l’articolo 9 della citata Ordinanza, con cui si proibiscono i matrimoni fra ebrei e non ebrei, come pure fra ebrei e incroci ebraici” (ivi, pagg. 345–347); e sostanzialmente identico fu il caso dell’Ungheria (vol. 6, pagg. 465–466; vol. 8, pagg. 245–246). Tutto questo sembra indicare che la dirigenza centrale del cattolicesimo avesse fissato la propria linea della fermezza all’altezza della difesa della libertà di celebrazione dei matrimoni cattolici “razzialmente misti” (non è chiaro se anche dei matrimoni ebraici “razzialmente misti”), e non all’altezza del rifiuto della classificazione giuridica in razze delle popolazioni nazionali o all’altezza della difesa dei diritti negati alle persone classificate “di razza ebraica”. Ora, al di là di ricostruzioni differenti che altri potranno dare (magari giungendo a farmi mutare opinione), a me sembra che il nodo del matrimonio sia comunque essenziale per la ricostruzione dell’azione della Santa Sede prima delle deportazioni, e non mi pare utile giungere ad oscurarne la presenza nelle fonti stesse.

B

La seconda questione concerne la retata di ebrei romani effettuata dalla polizia nazista il 16 ottobre 1943 a poche centinaia di metri dalla sede centrale della Santa Sede. Ebbene, tale vicenda è del tutto assente nel Rapporto dell’ICJHC. Eppure anche il solo esame testuale della documentazione pubblicata negli Actes permette già di formulare due considerazioni.

a) I curatori degli Actes pubblicano una Nota interna della Segreteria di Stato vaticana avente per data solo “ottobre 1943” (vol. 9, p. 507) e la collocano tra due documenti aventi la data “16 ottobre 1943”, sollecitando silenziosamente il lettore ad assegnare tale giorno di stesura anche alla Nota. In realtà l’analisi del suo testo e di altri documenti pubblicati negli Actes induce a concludere che la Nota costituì un atto logicamente e cronologicamente successivo a una lettera avente la data “25 ottobre 1943” e contenente annotazioni manoscritte datate 26 e 27 ottobre (ivi, pagg. 525–526). Da ciò ne consegue, tra l’altro, che la frase della Nota “La 2ª Sezione della Segreteria di Stato finora si è limitata a ‘segnalare’ alcuni fra i tanti casi, specialmente quelli di non-ariani battezzati, che non furono liberati, come altri nelle loro condizioni, dopo il loro arresto” non può più interpretarsi nel senso che le “segnalazioni” della Santa Sede all’ambasciata tedesca furono necessariamente effettuate quello stesso 16 ottobre. Esse cioè potrebbero essere state effettuate sia il 16 sia nei giorni seguenti; potrebbe quindi anche darsi che la prima di esse sia stata proprio la prima riportata negli Actes, ossia quella recante la data “18 ottobre 1943” (ivi, pag. 513), ossia la data della partenza per Auschwitz di tutti coloro che non erano stati “liberati” (e qui sarebbe indispensabile individuare e rapportare l’ora dei due fatti).

b) La seconda considerazione è connessa alle suddette “liberazioni” e concerne un’annotazione che i curatori degli Actes hanno apposto a una Nota stesa il 16 ottobre dal cardinale Maglione sul colloquio appena avuto coll’ambasciatore tedesco. Nella Nota Maglione riferisce tra l’altro di aver chiesto al suo interlocutore di “intervenire a favore di quei poveretti” e di aver ottenuto la promessa di “cerc[are] di fare qualche cosa” (ivi, pagg. 505–506). Nell’annotazione alla Nota i curatori segnalano che il 31 ottobre 1943 l’ambasciatore inglese riferì a Londra che, proprio a seguito del suddetto colloquio, l’ambasciatore tedesco “si attivò immediatamente, col risultato che molti vennero rilasciati”, sì che “l’intervento del Vaticano sembra aver effettivamente determinato la salvezza di una parte di questa sfortunata gente” (ivi, pag. 506). Con ciò, i curatori sollecitano silenziosamente il lettore a individuare in queste ultime parole la chiave interpretativa delle due Note qui da me richiamate. In realtà, le direttive generali naziste del momento erano di non deportare i coniugi o figli di “matrimonio misto” e i cittadini di determinati Stati (né, ovviamente, gli “ariani” arrestati nella fretta delle razzie), e la storiografia italiana motiva gli immediati rilasci di 237 dei 1259 razziati proprio con l’automatica e obbligatoria applicazione di tali direttive da parte della polizia tedesca; sì che le affermazioni del rappresentante inglese risultano — fino al reperimento di documenti in senso contrario — campate per aria (e forse frutto solo di informazioni vaticane), le sollecitazioni silenziose dei curatori gettano una brutta luce su tutto il loro lavoro, la Santa Sede pare vantarsi immeritatamente di uno specifico evento, la Commissione risulta comunque aver perso un’occasione.

Nota

Mi si può contestare il fatto che non spetta a me, membro della Commissione italiana di indagine sulla persecuzione dei beni degli ebrei in Italia (la Commissione Anselmi), criticare caratteristiche e struttura della Commissione ebraico-cattolica di indagine sull’aiuto vaticano agli ebrei perseguitati in Europa. Rispondo che la mia commissione non è paritetica, non si propone di pervenire a interpretazioni uniche, non è una farsa (ha accesso a tutta la documentazione inedita), non esprime giudizi collettivi su volumi, non ha alcuna missione concernente il dialogo tra qualsivoglia comunità. È una commissione di nomina governativa (non religiosa) che ha il compito di indagare cosa accadde a quei beni e quale fu l’ampiezza delle restituzioni postbelliche; io ne faccio parte a seguito di un’indicazione dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, sollecitata dal governo che ha ritenuto opportuno coinvolgere nell’indagine anche la rappresentanza di coloro che rimasero vittima di confische e furti ordinati o causati dai governi di allora, del tutto diversi dall’attuale ma pur sempre suoi predecessori. E, al di là di tutto, io vi lavoro quale storico, senza alcun aggettivo di provenienza o appartenenza.

Avvertenza

Nel testo su MicroMega, i brani inglesi del Preliminary report sono stati tradotti in italiano.

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